No Radar: la vittoria di Capo Pecora
Arriviamo nella baia di Portixeddu quando il sole sta già arrossendo. La lunga strada litoranea a picco sul mare è uno dei modi per raggiungere quello che riteniamo essere il luogo dove la natura ha offerto il suo spettacolo più maestoso. Così la provinciale 83 entra a pieno titolo tra le strade che augureremmo a chiunque di percorrere. Stagni di fenicotteri, campi, e poi la montagna rossa di ferro, le miniere abbandonate, le gole a precipizio, le vallate strette, custodite da alture floride e rocciose al tempo stesso. E poi, dopo un deserto di sassi e sterpaglia ondulata, l’improvvisa apertura del golfo, immacolato, con la sua sconfinata spiaggia bianca, la vegetazione al ridosso del mare e a perdita d’occhio nell’entroterra e la mole del monte alla cui base sta il Capo. Un paesaggio mozzafiato, miracolosamente scampato a tutto; un luogo più sognato che reale. Qui, una sera di Pasqua di due anni fa, lo Stato iniziò gli sbancamenti nel ventre della macchia mediterranea per installare un radar militare alto 15 metri.
Arriviamo alla casa-base spaziale di Corallo, personaggio talmente mitico da chiamarsi effettivamente così all’anagrafe, anche se a Torino, dove è cresciuto per seguire il padre minatore prima e operaio poi, lo hanno sempre chiamato Corrado. Fu uno dei primi, quel giorno, a salire in cima alla montagna e a piantare la tenda sulla strada di accesso al cantiere, bloccandola con il proprio corpo. Dai paesi circostanti arrivarono altre persone e in breve tempo nacque il presidio del comitato No Radar CapoPecora (“né qui né altrove”, specificava una scritta dell’epoca). Attivisti, militanti, semplici cittadini che si misero a occupare il gomito in cui la provinciale si annoda prima dell’ultima discesa verso il Capo, dove termina, quasi fossimo a Finisterre. Ma soprattutto una forte e determinante presenza femminile, tanto che, ricorda Marina sorridendo, veniva chiamato “il presidio delle donne”: “Eravamo tantissime! E poi ci preoccupavamo di non far mai reagire in modo aggressivo gli uomini, facendo capire loro che avremmo dovuto portare la lotta sullo studio e la consapevolezza e mai e poi mai sulla forza bruta”. Il comitato, ci racconta Maurizio, fu molto attivo e, a partire dal presidio, agì assieme ai comitati locali analoghi – il progetto dei radar militari riguarda l’intera Sardegna – riuscendo a trovare il cuneo attraverso un ricorso al TAR. Vinto. I nostri amici raccontano, ridono, ricordano e nei loro gesti rivive il clima di quei giorni di grande collaborazione, di comunità. ” Un giorno – ricordano – si sparse la notizia che stava arrivando la polizia a sgombrare il presidio. Nel giro di poco tempo dal paese era rifluita una gran massa di persone, pronte a resistere… ajò, bellissimo”. In verità il presidio attivo lo ricordavamo anche noi, perché per tutte altre ragioni e in tutt’altra circostanza eravamo finiti quaggiù, con la stessa vespa, a suonare e a cantare a sostegno della lotta che qui si stava conducendo per interessi sia particolari che universali. “Né qui, né altrove”. Parlando con Maurizio e Marina torna un tema che avevamo già incontrato vicino Niscemi, in Sicilia: il rifiuto della guerra e dei suoi strumenti. Confliggere contro un’istallazione radar militare significa quindi, quasi per conseguenza logica, dichiarare il ripudio della guerra, o più semplicemente leggere la Costituzione, spesso chiamata in causa, poche volte effettivamente presa in mano e aperta.
E’ una bella storia, non ci piove. Ci piace. Si tratta di una vittoria netta (“importantissima”, la definisce Marina): i militari hanno dovuto fare marcia indietro e ora la vegetazione, piano piano – ci vorranno decenni, purtroppo – sta riassorbendo l’urto (sta esercitando una “resilienza”, direbbero i nostri amici del Cilento), coprendo la ferita viva, rossa, scavata nella terra ferrosa, che ricordavamo, quando c’erano le tende, il banchetto, il pannello informativo e la grande scritta “No Radar” che nessuno si è permesso di cancellare.
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